OCEANO

Pubblicato il da Luca Lapi

LETTERE ALLA REDAZIONE

Ho 36 anni e sono portatore di handicap (spina bifida ed idrocefalo) sin dalla nascita.

Quando, da piccolo, i miei genitori organizzavano una festa alla domenica, invitando i propri amici con rispettivi figli, io venivo emarginato - forse involontariamente - da questi ultimi, perché ovviamente preferivano praticare giochi di movimento, ai quali era impossibile che io partecipassi, invece che giochi statici (es. carte, tombola).

Penso che, a questo punto, occorra aprire una breve parentesi sul mio "status" di portatore di handicap. L'esperienza immediata che ne è derivata, prima accennata, mi portava a considerare l'handicap un problema di difficile soluzione e con il quale mi vedevo costretto, per tutta la vita, a convivere, portandomi spesso a "piangermi addosso".

Successivamente, però, la mia personale esperienza mi ha portato a considerare l'handicap una risorsa (salvo piccoli e fastidiosi problemi), una ricchezza da condividere con tutti.

Chiudo la parentesi e proseguo la mia riflessione da dove l'ho interrotta.

Ho trascorso, quindi, più spesso e poi per forza di cose, la mia infanzia in compagnia di adulti, che di coetanei. Accadeva, pertanto, che parlando dei miei coetanei, li indicavo non tanto come gli amici X o Y, ma come i figli degli amici X ed Y. Anche gran parte dei miei compagni di scuola, salvo alcune eccezioni, non li ho mai considerati degli amici veri, ma soltanto "compagni di classe": il mio rapporto con loro si limitava alle ore della mattina e non al resto della giornata.

Alcuni tentavo di invitarli a casa mia, ma mi rispondevano di no a causa, esempio, degli "allenamenti" di calcio, oppure, peggio, accettavano l'invito, ma poi non venivano senza nemmeno avvertirmi.

Ricordo che, per questi motivi, prediligevo i giorni di scuola, piuttosto che i giorni di vacanza, o le ore di lezione invece della ricreazione.

Un'altra esperienza, positiva e negativa allo stesso tempo, è stata quella del campeggio estivo alla Pieve a Cavallico.

Ricordo di averci fatto tante nuove amicizie, ma anche di averci provato anche alcune delusioni. Ricordo le celebrazioni e le riflessioni fatte insieme vicino al fiume, i bivacchi, i pranzi e le ene gli uni accanto agli altri, ma ricordo, anche, le partite di calcio e le camminate, che non potevo fare insieme a tutti. Motivo per cui prediligevo il maltempo, grazie al quale eravamo costretti a stare tutti insieme, piuttosto delle belle giornate ove ciascuno stava per conto proprio, o riuniti in piccoli gruppi.

Mi chiedo, ora, riferendomi agli amici ed al trattamento che alcuni di essi i hanno riservato: come mi sarei comportato al loro posto?

E' molto difficile, per me, rispondere a questa domanda e, tuttavia, non mi è impossibile.

Vorrei prendere, come spunto di riflessione, la parabola del buon Samaritano. Io credo che, di fronte all'ipotesi di offrire un aiuto immediato, nel limite delle mie capacità, ad un portatore di handicap psichico, mi comporterei come il "dottore della legge" ed il "levita", mentre nel caso di un portatore di handicap fisico, mi comporterei come il "buon Samaritano".

Ricordo, ancora, che per il timore di essere "di troppo", mi isolavo in me stesso cercando, magari, un motivo valido che giustificasse questo mio atteggiamento. Ma non trovandolo, che in un bisogno sempre maggiore di una comunione sempre più intima con Dio Creatore, da esplicare in una vera comunione con ogni Sua creatura.

Luca L.

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